Intervista a Roberto Gualtieri – Sette (Corriere della Sera) – di Tommaso Labate –
«La chitarra avevo cominciato a suonarla al ginnasio, e l’ho studiata al Saint Louis college of music, a Roma. Chitarra classica. Anche elettrica, certo, ma soprattutto classica amplificata. La passione era soprattutto per la musica brasiliana; ma, prima di arrivare alla bossa nova vera e propria, avevamo sperimentato il jazz fusion. Ci chiamavamo Jazz Samba Ensemble. Io alla chitarra; Giovanni Guaccero, oggi apprezzatissimo musicista e compositore, al pianoforte;
alla voce c’era Anna Bovet, che tra l’altro era imparentata col grande Chico Buarque. Suonavamo prevalentemente nei jazz club della scena della Capitale, spesso anche con Rosaria de Souza, una bravissima cantante. Mi è capitato anche di suonare per strada. Una volta, memorabile, dentro la metropolitana di Parigi…».
C’è un’incredibile circolarità nel racconto della vita di Roberto Gualtieri. Storico, vicepresidente dell’Istituto Gramsci, parlamentare europeo, ministro dell’Economia del governo Conte II e oggi candidato del centrosinistra a sindaco della sua città, Roma. La sua tesi di dottorato era sul Piano Marshall; mentre la versione contemporanea del piano di aiuti
all’Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e cioè il Recovery Plan, è stato al centro della sua azione quando è stato al governo. All’interno di questo cerchio, come se
fosse un puntino molto visibile, la scena del Gualtieri musicista che suona per strada proprio come i Máneskin avrebbero fatto qualche decennio dopo di lui, a Roma, inaugurando il loro salto verso la celebrità italiana, europea, mondiale.
E la politica, in tutto questo?
«Comincio nel primo anno di università, col comitato “Lettere a sinistra” alla Sapienza di Roma. Il segretario della Lega degli studenti universitari della Federazione dei giovani comunisti italiani era Nicola Zingaretti».
È vero che aveva una media altissima?
«Media del trenta».
Difficile da mantenere fino alla laurea.
«Ci sono riuscito. Quando inizi a prendere tutti trenta, mantenere la media può diventare quasi un punto di principio».
Un immarcescibile secchione, insomma.
«Lo ero anche prima, al liceo. Lo sono sempre stato. Un secchione orgoglioso. Di quelli però che comunque, oltre allo studio, fanno anche altro. Io avevo la musica».
L’essere secchione è come la precisione del piede sinistro a caldo. Uno può nascere così e rimanerti. Oppure perdere quel talento per strada…
«A me piace studiare perché sono curioso e poi studiare a fondo i dossier è fondamentale. Al ministero dell’Economia e prima in Europa, per esempio, ho avuto la prova che un ministro non può limitarsi a dare l’indirizzo politico senza esaminare le questioni sul piano tecnico e lasciare che le sue indicazioni vengano trasformate in cose da fare dai dirigenti. Altrimenti molte scelte rimangono sulla carta e si incagliano in mille problemi tecnici che vanno esaminati a monte. Per questo ero abituato a riunioni che diventavano quasi assemblee. Di decisioni ne
abbiamo prese di importanti durante la pandemia: i soldi perla sanità, la liquidità per le imprese, i ristori. Governare, dal mio punto di vista, vuol dire questo: fare accadere le cose».
Come se in una fabbrica di biscotti…
«Dalla cucina dove si prepara l’impasto, al forno, fino al momento in cui la confezione di biscotti è pronta per essere distribuita. Se governi, se amministri, non puoi saltare nessuno di questi passaggi. È il modello che ho intenzione di portare al Campidoglio, da sindaco di Roma. Perché, tra le mille cose e i mille problemi, alla città è mancato questo negli ultimi anni. Un sindaco che prende le decisioni e poi non segue il percorso che queste decisioni fanno, ecco, fallisce. Anche perché molto spesso la decisione presa, se non la segui, si ferma una volta
superata la tua porta».
Chi fa la spesa a casa sua?
«E un compito che ho quasi sempre io. Non ho smesso di andare al supermercato neanche quando facevo il ministro dell’Economia».
Avevamo lasciato il giovane Gualtieri alle prese col comitato “Lettere a sinistra”.
«Anni dopo, quando sarebbe diventato il presidente nazionale dei giovani traghettati dalla Federazione giovanile comunista alla Sinistra giovanile — il passaggio era figlio della fine del Pci — Zingaretti mi chiese di prendere il suo posto come leader degli studenti universitari. Accettai, ma solo per un breve periodo. Il tempo di gestire la transizione a Stefano Fassina, che veniva dalla Bocconi. Non potevo studiare e fare politica a tempo pieno. Dovendo scegliere, scelsi di iniziare la carriera da ricercatore, il dottorato…».
E la musica?
«Suono ancora oggi la chitarra. Ma avevo già capito che la musica non sarebbe diventata la mia professione».
In tanti l’hanno dimenticato. Ma lei fu protagonista della nascita del Pd.
«Nel 2006, quando al seminario di Orvieto Romano Prodi diede il via al cantiere del Partito democratico, fui uno dei tre “saggi” a cui vennero assegnate le relazioni introduttive e poi venne chiesto di iniziare a lavorare al manifesto».
Tre saggi, uno per ogni tradizione che confluiva nel soggetto nuovo.
«Io per la tradizione del Pci-Pds-Ds, Pietro Scoppola per i post democristiani, Salvatore Vassallo rappresentava gli ulivisti».
II manifesto vero e proprio l’avete redatto in dodici, alla fine. Nel gruppo, oltre a lei, c’era anche Sergio Mattarella. Di fronte a cui, tredici anni dopo, avrebbe giurato da ministro.
«Esatto. È stato un vero onore per me».
Come si rese conto che stava per diventare ministro dell’Economia nel governo Conte II?
«Il mio nome era già stato indicato nel totoministri dei giornali ma non davo grande peso alla cosa e, soprattutto, non ho mai alzato il telefono per perorare la causa. Diciamo che stavo a metà tra l’incredulo, il terrorizzato e il fatalista. Una sera, a Bruxelles, da poco rieletto presidente della Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento europeo, ero in ufficio con Christine Lagarde, che stava per diventare presidente della Banca centrale europea dopo Mario Draghi. Stavamo istruendo la sua audizione in Commissione, che sulla nomina del presidente della Bce esprime un parere. Finito questo lungo lavoro, tomo a
casa. Squilla il telefono, sono Nicola Zingaretti e Dario Franceschini. Poche parole: “Roberto, domani prendi il primo volo e torna a Roma, vai a fare il ministro dell’Economia”».
Che cosa si risponde in questi casi?
«Che cosa rispondono gli altri non lo so. So che cosa ho risposto io. “Quanto tempo ho per pensarci?”. Tempo per pensarci, ovviamente, non ce n’era. Chiamai subito la Lagarde. “Christine, domani all’audizione non ci sarò…”. Lei ovviamente capì. E ricordo con affetto le
parole di stima che spese nei miei confronti».
Come si sentiva?
«Molto spaventato. Ma anche molto onorato».
Spavento e onore possono guidare anche l’azione del candidato sindaco di una città come Roma?
«Tutte le cose che ho fatto nella mia ita, le ho fatte col massimo dell’impegno. E alcune di queste, come la gestione dell’economia di un Paese afflitto da una pandemia, sono state di un certo peso».
Richiedono autocontrollo.
«Chissà, forse questa è una delle cose che ho imparato facendo il lupetto da ragazzo, dell’Agesci. I miei votavano Pci, per fortuna tenevano molto a questa esperienza nei boyscout cattolici che è stata meravigliosa».
Da che famiglia viene?
«Una famiglia normale. Papà controllore del traffico aereo, mamma dipendente del ministero del Commercio estero».
Terreno fertile per un secchione.
«Diciamo un secchione appassionato»
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