di Emiliano Fittipaldi e Federico Marconi – Su Enrico Michetti, il semisconosciuto candidato della destra per la scalata al Campidoglio alle amministrative del 3 ottobre, ci sono a oggi tre certezze. La prima, figlia di gaffe e surre ali digressioni sulla Roma dei Cesari, è che il tribuno lanciato dalle trasmissioni su Radio Radio sembra del tutto inadeguato al ruolo di sindaco della capitale.
La seconda è che Michetti, sondaggi alla mano, è avanti rispetto ai rivali, e salvo sorprese arriverà al ballottaggio, grazie alla forza dei partiti che lo sostengono. La terza evidenza è che, dovesse vincere il duello finale contro la sindaca uscente Virginia Raggi, Carlo Calenda (Azione) o Roberto Gualtieri (Pd), il docente a contratto dell’Università di Cassino, conterà poco o nulla. Non solo perché privo di qualsiasi esperienza politica, ma per ché privo di consenso personale (che appare inferiore a quello delle liste che lo appoggiano) e forza politica reale.
Il ritorno dei destri
La macchina elettorale che sostiene lui e la sua vice Simonetta Matone, al contrario, è ben oliata. Ed è guidata da uomini di Fratelli d’Italia e della Lega: in caso di successo della coppia saranno i loro dante causa, dunque, ad appaltare e smistare le poltrone di assessorati e partecipate. Con il rischio (altissimo) di rivedere Roma in mano a ex fascisti, vecchi militanti missini, raccomandati assortiti e volti della destra sociale già protagonisti dei fallimenti delle giunte di Gianni Alemanno, sindaco di Roma tra 2008 e 2013,e Renata Polverini, presidente del Lazio tra 2010 e 2012. Un universo nero che dopo i disastri dei primi anni dieci al potere si è inabissato dividendosi in fazioni diverse e litigiose, e che oggi è tornato a rioccupare posizione di vertice non solo del partito lepenista di Giorgia Meloni, ma anche della Lega di Matteo Salvini, guidata a Roma e nel Lazio dal nostalgico Claudio Durigon, oggi in bilico. Gabbiani per sempre Andiamo con ordine. Se a ottobre il Cavalier Michetti (uno che paragonai vaccini anti Covid al doping della Germania dell’Est) riuscirà nell’ardua impresa, in tanti scommettono che il Campidoglio sarà militarizzato, in primis, dai colonnelli di Giorgia Meloni. Il più influente, a oggi, è Francesco Lollobrigida. Cognato della “caga” (ha sposato la di lei sorella Arianna, la prima ad aver segnalato a Giorgia il tribuno radiofonico come possibile candidato civico) oggi è capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera. Già assessore ai Trasporti con la Polverini, “Lollo”, come lo chiamano gli amici, è diventato il suggeritore più ascoltato di Meloni. Non solo pervia della parentela stretta, ma anche per la decisione di rivoluzionare insieme la strategia politica del partito. I due, di fatto, hanno ucciso freudianamente il “padre” e mentore Fabio Rampelli, rinnegando la visione settaria dell’ex capo della sezione di Colle Oppio e della corrente dei “gabbiani” e aprendo il partito ad alleanze e pezzi della società civile dentro e fuori dal Grande raccordo anulare.
Chi scambia Lollobrigida per un moderato, però, sbaglia di grosso: post fascista con spiccate influenze rautiane (nel senso di Pino, fondatore di Ordine nuovo), da assessore regionale di Renata Polverini inaugurò ad Affile, insieme al collega Teodoro “Er pecora” Buontempo, un sacrario dedicato al gerarca fascista Rodolfo Graziani, mausoleo che costò allora circa 127mila euro e che fu finanziato con fondi della regione. «Soldi spesi bene», spiegò Lollobrigida, nonostante le vibranti proteste dell’Anpi, l’associazione dei partigiani. Graziani fu ministro della Guerra della Repubblica di Salò, e durante la guerra in Libia e in Etiopia sterminò i nemici con l’uso massiccio di gas: condannato nel 1950 a 19 anni di carcere per aver collaborato con i nazisti, morì ne11955 ed è ancora oggi considerato, dalla destra estrema, «un patriota e vero militare». “Lollo”, che Meloni sogna di vedere al posto di Nicola Zingaretti nel 2023, è anche l’ideatore della campagna di Fratelli d’Italia per sostituire la festa della Liberazione del 25 aprile, considerata troppo «divisiva», con il 4 novembre, anniversario della vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale.
Le meloniane
Michetti sa che dovrà ascoltare- direttamente o indirettamente – i consigli non solo del cognato, ma anche la sorella di Giorgi. La moglie di Lollogrigida, Arianna, formalmente è una dipendente precaria della regione Lazio, assunta e riassunta da lustri dai vari gruppi consiliari della destra: l’attuale incarico è quello di responsabile della segreteria della presidente della commissione Trasparenza, la meloniana Chiara Colosimo. Tutti sanno, però, che la sorella minore del leader è una dei consiglieri esterni più ascoltati nel partito. «Faccio politica del 1993 a prescindere dalle parentele, non ho mai avuto bisogno di essere raccomandata da alcuno», ha detto lo scorso settembre a chi la accusa di nepotismo.
Lei, in effetti, sembra preferisca raccomandare: nel 2007, quando a Viterbo fu arrestato l’assessore di Alleanza nazionale Mauro Rotelli perché accusato di aver assegnato la gestione delle mense scolastiche a una società (la Euroservice catering) in cambio dell’assunzione di alcune persone, i magistrati esibirono documenti e fax inviati da Arianna in persona alla stessa società in cui si segnalavano nomi di persone da assumere nei servizi di fornitura pasti di alcune carceri.
Al tempo dei fatti la Meloni senior era impiegata del gruppo An alla regione Lazio, per poi approdare alla segreteria di Rampelli. «Ritengo che tutti coloro che fanno politica segnalino tramite i partiti persone che hanno bisogno di lavoro. Non credo che possa essere considerato un crimine», disse candidamente, aggiungendo che l’amico Rotelli «uscirà alla grande dalla vicenda in cui si trova coinvolto». In effetti Rotelli, ex consigliere giuridico di Giorgia Meloni quando era ministro della Gioventù e oggi fedelissimo deputato di Fratelli d’Italia, fu scarcerato dopo due mesi, mentre le accuse di abuso d’ufficio e turbativa d’asta finirono in prescrizione nel 2014. La Corte dei Conti nel 2018 lo ha però condannato a pagare 70 mila euro di risarcimento d’anni al comune di Viterbo, che un anno fa ha notificato all’onorevole l’ingiunzione a pagare. Al netto degli imbarazzi sui fax, un’altra vicenda giudiziaria ha creato ad Arianna Meloni qualche grattacapo: lei e il marito Lollobrigida furono infatti accusati dai magistrati di Piazzale Clodio di corruzione, nientemeno per aver favorito il costruttore Paolo Marziali ne12009 in cambio di utilità. Per fortuna della coppia in ascesa nel 20161a stessa accusa chiese l’archiviazione dell’inchiesta, perché gli episodi contestati ai due coniugi erano ormai troppo distanti nel tempo per l’esercizio dell’azione penale.
La tolkieniana Colosimo
Molta voce in capitolo, vincesse Michetti la corsa al Campidoglio, l’avrà anche Chiara Colosimo, la donna forte di Fratelli d’Italia nella Capitale. Per anni organizzatrice della kermesse politico-tolkieniana di Atreju, originaria della Garbatella come l’amica Giorgia, qualche incontro di pugilato alle spalle e una breve carriera da “fascio-cubista” alla discoteca Gilda, è oggi potente consigliere alla Pisana, e punto di riferimento della giovane classe dirigente ex missina a Roma. Intelligente e scaltra, collanina con la croce celtica portata per anni accanto al crocifisso, qualche polemica per una vecchia intervista fatta davanti all’effige di romeno Corneliu Codrenau (negli anni Trenta fondatore della Guarda di Ferro, antisemita e vicino ai nazisti), qualche giornale a maggio aveva addirittura ipotizzato una sua candidatura a sindaca. Congettura accantonata subito dalla Meloni. Così come quella di incoronare candidato il mentore di tutti i “gabbiani” (Colosimo compresa), cioè Fabrio Rampelli in persona.
Il Rampelli furioso
Fondatore di Fratelli d’Italia e principale fautore con Guido Crosetto dello strappo con il Pdl nel 2012, il maestro sa bene che i rapporti con l’apprendista si sono raffreddati da tempo, ma Rampelli sperava che l’allieva gli concedesse almeno il classico promoveatur ut amoveatur, candidandolo al Campidoglio. La leader ha deciso altrimenti, non tanto perché considera Michetti più valido dell’ex precettore, ma soprattutto per evitare scontri di potere interni al partito e consentire a Lollobrigida di giocarsi le sue carte per la sfida, tra due anni, per la presidenza della regione Lazio. Rampelli nega screzi e autocandidature, e per ora dissimula il malcontento. Sa bene, però, che il pacchetto di voti che controlla a Roma è ancora rilevante, e sa che in caso di una vittoria di Michetti potrà piazzare i suoi fedelissimi in qualche posto di peso. Come già accaduto nel 2019 con Marco Marsilio, “gabbiano” doc e suo braccio destro storico diventato governatore dell’Abruzzo, nonostante vecchie polemiche sulla moglie Stefania Fois, che fu lambita dagli scandali sulle parentopoli di Alemanno perché contrattualizzata in Atac, l’azienda municipalizzata romana dei trasporti. Trionfasse Michetti, alla costituzione della sua squadra metteranno bocca certamente anche Andrea “Peo” De Priamo, ex rampelliano di ferro e oggi amico personale di Meloni, senza dimenticare l’ex assessore di Alemanno Fabrizio Ghera e Federico Mollicone, il deputato di FdI che due settimane fa ha seminato il panico tra i commessi della Camera che tentavano invano di strappargli di mano i cartelli contro il green pass. «Visto? Ho ancora i riflessi da cestista», ha detto. Anche Federico Rocca potrebbe dire la sua: candidato nelle liste meloniane insieme a Rachele Mussolini (nipote di, ovviamente), in molti credono possa fare un exploit di preferenze e prendersi un assessorato di peso.
Leghisti e missini
Dietro il moderatismo sornione di Michetti e Matone, però, non c’è solo l’estremismo della destra sociale dei “gabbiani”, che hanno riaccolto tra le loro fila lo stesso ex nemico Gianni Alemanno, assolto di recente dalla Cassazione per le accuse di corruzione ma non per quelle di traffico di influenze e finanziamento illecito da parte di Salvatore Buzzi della sua fondazione Nuova Italia, condanna confermata dai giudici della corte suprema. Ma pure il blocco ex missino finito nelle file della Lega di Salvini. Gran cerimoniere dei sovranisti laziali è ovviamente Claudio Durigon. Quanto conterà il sottosegretario all’Economia finito nella bufera prima per i rapporti personali con personaggi legati alla criminalità organizzata dell’area pontina e poi per la proposta di intitolare il Parco “Falcone e Borsellino” ad Arnaldo Mussolini (fratello del Duce e principe del regime, di cui curò la propaganda fascista su giornali e radio) dipenderà anche chi, alle amministrative romane del 3 ottobre, vincerà il derby tra nostalgici e sovranisti. La Lega alle ultime comunali del 2016 aveva raggiunto appena il 2 per cento dei voti, contro il 12 di Giorgia Meloni. Nelle ultime europee del 2019, però, a Roma Salvini è arrivato al 25 per cento delle preferenze, mentre Fratelli d’Italia è rimasta ferma all’8 per cento. Percentuali, dicono gli analisti, destinate tra due mesi a invertirsi di nuovo. Si vedrà. Di sicuro Durigon – vincesse Michetti anche grazie a un’affermazione delle liste leghiste – chiederà per i suoi almeno due-tre assessorati di rilievo, senza parlare dell’assalto alle partecipate capitoline come Ama, Atac e Acea. Ex segretario dell’assessore della Polverini Mariella Zezza, il latinense è un ex camerata dell’Ugl, il sindacato di destra di cui divenne vicesegretario, e da commissario romano del Carroccio ha usato le relazioni con l’organizzazione dei lavoratori per creare una rete di potere di tutto rispetto. Il sottosegretario in bilico non si candiderà direttamente al Campidoglio, ma la compilazione delle liste saranno cosa sua e dei suoi sodali nel partito di Via Bellerio. Tra questi ci sono Alfredo Maria Becchetti, un notaio e semisconosciuto giudice della Figc diventato a sorpresa nuovo responsabile della Lega a Roma dallo scorso fine dicembre, Fabrizio Iadicicco e l’altro ex meloniano Maurizio Politi, vicino ai movimenti di destra pro-life e al movimento “Generazione Popolare” guidato da Edoardo Arrigo, nipote di Alemanno. Ma la Lega, a Roma, ha anche il viso più rassicurante di Barbara Saltamartini. La deputata leghista è a capo di una corrente diversa da quella di Durigon, e ha deciso di candidarsi al Campidoglio su richiesta di Salvini in persona. È l’emblema del vecchio (Msi) che avanza saltando di palo in frasca: in politica da 25 anni, ha cominciato con Azione giovani e nel 2008 è stata eletta alla Camera – anche grazie al rapporto strettissimo con Alemanno – nelle file del Pdl. Si distingue negli anni per le battaglie contro l’aborto, il divorzio breve, l’eutanasia. E per il sodalizio familiare e politico con il marito Pietro Di Paolantonio (ex alemanniano di ferro e celebre come ideatore della manifestazione di musica celtica “Fairylands”), che nel 2013 fu promosso assessore regionale dalla Polverini. I due passano nel Nuovo centro destra di Angelino Alfano, ma la Saltamartini chiede asilo alla Lega quando il progetto salta. Anche lei, in realtà, sognava una candidatura a sindaca di Roma. Ma ora deve sdebitarsi con Salvini che l’ha accolta a braccia aperte, e deve appoggiare il cavalier Michetti senza se e senza ma. Sapendo che -vincesse davvero il tribuno delle gaffe – sarebbero lei e gli altri ex camerati sparpagliati tra i partiti di destra (non va dimenticata l’area forzista che fa capo a Maurizio Gasparri) a dare le carte e a gestire il potere.
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